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Dossier
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Chiabodo Nadir, il delitto di Entrèves L'8 agosto 1953 in un prato sopra Entrèves, in direzione del ghiacciaio della Brenva, viene ritrovato il corpo martoriato da 21 coltellate di una giovane donna. Si tratta di Angela Cavallero, una “sartina” torinese che stava trascorrendo in Val d’Aosta qualche giorno di vacanza ed era solita passare le mattinate a fare il “bagno di sole” vicino alla Dora. Alloggiava presso “l’accantonamento” della famiglia Bocca, una pensione a basso costo, insieme ad altri villeggianti con cui passava le serate: Giovanni Forno, Sergio Gribaldo, Enrico Caffarelli e la sua compagna Jolanda Bergamo, e il figlio dei proprietari Vincenzo Bocca. Inizialmente gli inquirenti pensano ad un delitto passionale. Vengono quindi fermati Vicenzo e Giuseppe Bocca, Giovanni Forno e Sergio Gribaldo. Poi le indagini si indirizzano verso la figura di Jolanda Bergamo, una cameriera di origine veneta residente a Roma che avrebbe nutrito verso Cavallero sentimenti di gelosia. La donna era in vacanza con il suo amante, padre di suo figlio, che l’avrebbe trascurata riservando invece attenzioni ad Angela. Bergamo sembra non avere un alibi e viene quindi arrestata il 19 agosto. Poi, il 31 agosto, in seguito alla sopraggiunta dichiarazione di una testimone, Pina Doro, l’incubo finisce: viene scarcerata e, tra la solidarietà popolare, torna alla sua vita romana e al suo bambino. Le indagini riprendono, sotto la direzione del capitano Arrigo De Luca, e il 20 settembre emerge un nuovo indiziato, Nadir Chiabodo, un uomo dal passato difficile, ex legionario che aveva combattuto in Indocina, che era stato licenziato proprio il giorno prima del delitto ed era partito per il servizio militare a Palermo poco tempo dopo, il 1° settembre. In seguito ad una “soffiata”, gli investigatori ritrovano a casa dell’uomo il braccialetto e l’orologio della vittima. Nello stesso tempo emerge una testimone, Nerina Revel, che riconosce in Chiabodo l’uomo dalla bicicletta rossa che avrebbe tentato di aggredirla per derubarla la sera del 7 agosto, sulla strada che scende da Notre Dame de la Guérison. Arrestato il 20 settembre, Chiabodo, di fronte alle pressioni della moglie, ammette il delitto. Né darà però versioni discordanti nel corso del tempo. Al momento dell’arresto parla di rapina. Durante il processo di primo grado propende invece per il delitto passionale, sostenendo di aver conosciuto Cavallero a Torino un anno prima, di averla rincontrata per caso a Courmayeur e di essersi dato appuntamento con lei per un incontro amoroso, la donna avrebbe però notato la fede che portava al dito e ne sarebbe nato un diverbio degenerato nella violenza. Avrebbe rubato gli averi di Angela solo per indirizzare le indagini verso la rapina. Al processo di appello Chiabodo ritratta nuovamente e afferma che non conosceva Cavallero ma che il movente era comunque passionale: vedendo la ragazza che si spogliava avrebbe tentato di violentarla. La Corte ascrive il delitto a omicidio a scopo di rapina e condanna Chiabodo a 29 anni e otto mesi di carcere, sentenza che viene poi confermata in corte d’appello. Il «giallo» attira l'attenzione della stampa nazionale, richiamando a Courmayeur giornalisti come Francesco Rosso e Giovanni Giovannini, del quotidiano «La Stampa», Giorgio Bocca, allora alla «Gazzetta del Popolo», Oriana Fallaci…: una ventina di inviati che, come racconta Bocca in una sua testimonianza (Bocca 2007), intraprendono una vera e propria indagine parallela a quella degli investigatori, in una lotta contro il tempo e fra di loro per arrivare per primi allo scoop. -
Cattaneo Francesco Tra la fine di settembre e i primi di ottobre del 1925 Francesco Cattaneo uccide la moglie Erina Barbero, una prostituta soprannominata la Bela Renin, con cui abitava in una camera dell’albergo e punto di ritrovo Gran Cairo in via Santa Teresa. La donna era a conoscenza di un precedente omicidio di Cattaneo, quello di uno spacciatore austriaco, Leopold Fleischmann, e periodicamente minacciava di rivelare il delitto. Da qui la decisione di Cattaneo, che sembra aver agito con alcuni complici, Ludovico Bertini, Gennaro Rubino e Mario Giuseppe Rosso. Il corpo viene fatto a pezzi e lasciato in tre involti in diverse parti della città. «Il processo richiamò la folla delle grandi occasioni. I gendarmi dovettero bloccare le vie del centro storico per regolare l’afflusso dei curiosi. La Curia Maxima torinese si trasformò in un palcoscenico a cui tutti avrebbero voluto accedere… Cattaneo venne condannato a trent’anni. Per complicità, Bertini ebbe una pena mite, appena cinque anni».(Rossotti, 2008, p. 59). -
Grande Ettore La mattina del 23 novembre 1938 Vincenzina Virando, figlia di un gioielliere piemontese che si è da pochi mesi sposata con il diplomatico Ettore Grande e si è trasferita con lui a Bangkok, viene trovata morta nella sua camera da letto. La tesi della polizia siamese è che la donna si sia suicidata, sparandosi con la pistola Browning 6,35 del marito, mentre l'uomo era in bagno. Ma al ritorno in Italia i familiari della vittima sollevano dei sospetti sul marito. Il corpo della donna, seppellito nel cimitero di Viù, nel torinese, viene quindi riesumato e una nuova autopsia porta alla luce un foro che, essendo sulla nuca, non può essere stato provocato dalla presunta suicida. Su questo quarto foro ruoterà il lungo iter giudiziario che coinvolge Ettore Grande dal 1941 al 1951, in uno scontro di perizie e controperizie sul cranio della vittima – se ne conteranno ben 19. Fino a quando durante il processo di cassazione il professore torinese Antonio Gagna avanza una tesi, suffragata anche dall'insigne chirurgo Antonino Uffreduzzi, che confuta le conclusioni dell’accusa e determina il proscioglimento: nessun colpo sarebbe stato sparato alla nuca, il foro non sarebbe stato provocato da un proiettile in entrata, ma dalla sporgenza denominata "dente dell'epistrofeo", nella seconda vertebra cervicale, che, colpita dalla pallottola sparata all’altezza del mento, si sarebbe spezzata e conficcata nella nuca. «Ecco spiegato il foro – dichiara Antonio Gagna al processo – Quindi colpo sul davanti, osso frantumato e dente dell’epistrofeo che batte contro la nuca e la buca […]. Soltanto tre colpi furono sparati dal davanti in due riprese. Il primo e, quasi di certo Vincenzina perse i sensi. Mentre il marito correva in bagno a prendere la bacinella, lei si rianimò e si sparò gli altri due colpi», (Rossotti 2008, p. 74). Grande viene quindi assolto con formula piena. Cercherà di rifarsi una vita riprendendo la carriera diplomatica e risposandosi nel 1957 con Barbara Alessandra Roscheeva. -
Zappia Filippo, il feroce assassinio di Runaz Filippo Zappia è un giovane di 19 anni originario di Benestare in provincia di Reggio Calabria giunto in Val d'Aosta, a Runaz, nel comune di Avise, vicino a Villeneuve, nel mese di giugno del 1953 in cerca di un lavoro che però fatica a trovare. Un compaesano, Giuseppe Farfarello, lo presenta a Vittorino Vauthier, un uomo di 51 anni con un passato burrascoso di collaborazionismo con i nazisti, ora militante dell’Movimento sociale, che vive facendo l’autista, ma è un elettromeccanico che ha insegnato alla scuola delle officine Cogne e ha da poco inventato una particolare turbina. Vauthier gli offre vitto e alloggio a casa sua e un compenso di 600 lire al giorno per risistemare la sua abitazione. Fra i due nascono però presto contenziosi sul piano economico. Il giorno del delitto, il 4 settembre, si verifica un litigio particolarmente acceso, dovuto anche al fatto che la mattina Zappia si è rivolto per assistenza ai sindacati. Da quella sera di Vauthier non si hanno più notizie, mentre Zappia si allontana l’indomani da Runaz e dopo alcuni giorni di ospitalità da dei compaesani ritorna in Calabria. Il 14 settembre un sopralluogo nella casa di Vauthier porta alla scoperta di tracce di sangue nella camera da letto e al rinvenimento del cadavere dell’uomo che era stato sotterrato in cantina. Il brigadiere Russo, che si è recato sul luogo del crimine insieme al capitano Arrigo De Luca e a un agente di pubblica sicurezza specializzato nelle indagini di polizia scientifica, nota alcune assi che apparivano molto umide, segno che erano state girate da poco, le solleva e scopre in una fossa il morto. Il delitto è stato commesso nello stesso periodo di quello di Angela Cavallero a Entrèves e si ipotizza una correlazione tra i due crimini, dato che Vauthier aveva portato dei clienti a Entrèves proprio il giorno della morte della giovane. La vittima avrebbe potuto essere stata assassinata perché conosceva qualcosa relativa alla morte di Cavallero. I sospetti si indirizzano però fin da subito e più proficuamente anche sul giovane Zappia, che viene tradotto ad Aosta e, interrogato il 18 settembre dal capitano De Luca, finisce rapidamente per confessare. La sua tesi è quella della legittima difesa: di fronte al rifiuto di Vauthier di pagarlo si sarebbe introdotto di notte nella sua camera da letto per sottrargli i soldi che l’uomo aveva da poco incassato come acconto per la sua turbina e quando la vittima si era svegliata e aveva accennato a prendere il fucile, l’aveva colpito tre volte con una spranga di ferro trascinando poi il corpo ancora avvolto nelle coperte in cantina con una cintura legatagli al collo per non toccarlo. L'autista aveva riscosso proprio il 2 settembre, due giorni prima della morte, in una banca di Villeneuve, un assegno di 48.000 lire quale acconto per la vendita del suo nuovo modello di turbina, doveva quindi avere in casa almeno 50.000 lire, somma che non venne trovata. La tesi dell’accusa è invece quella della premeditazione: il fatto stesso che i colpi di spranga siano stati inferti tutti nella stessa posizione farebbe pensare che la vittima stesse dormendo. Si sospetta inoltre che Vauthier non fosse in realtà morto in seguito ai colpi di spranga e che Zappia lo avesse sepolto ancora vivo. -
Money Pietro Il 24 novembre del 1907 nel paese di Nus vengono ritrovati i cadaveri di Serafina Gaspari e Rosalia Gorret, figlia e madre strangolate rispettivamente nel cascinale dove abitavano e nel fienile. Una prima istruttoria porta a individuare la responsabile delle due morti nella stessa Gaspari che avrebbe ucciso la madre e si sarebbe poi tolta la vita, impiccandosi ad una trave del fienile, la notte del 22 novembre. Così fa infatti supporre una lettera ritrovata nella casa delle vittime in cui la donna avrebbe spiegato le ragioni del gesto con il dolore per l’abbandono da parte del marito, Pietro Money, con cui aveva un rapporto difficile e che era partito per Parigi senza degnarla di un saluto. I rapporti tra Money, contadino di 43 anni, e le due donne si erano da tempo logorati. L’uomo, di carattere violento, era riuscito a farsi cedere il podere di Rosalia Gorret dopo continue intimidazioni e si era quindi separato dalla moglie, trasferendosi a Parigi e iniziando una relazione con una sua cugina, Giulia Chabloz. Tornava però periodicamente a Nus per riscuotere i proventi della coltivazione del podere e in una di queste visite si sarebbe appunto consumata la tragedia. Una seconda istruttoria, aperta dietro le insistenze degli abitanti del paese, avrebbe poi portato a scoprire che la lettera era falsa, dato che Gaspari era quasi analfabeta e che il delitto sarebbe stato compiuto da Money e dallo zio, Antonio Simone Chabloz, contadino di 69 anni, padre di Giulia, che era vicino di casa delle due donne e nutriva verso di esse un profondo rancore. Le perizie autoptiche dimostrano che Rosalia Gorret è stata strangolata con le mani e non con la corda posta di fianco al cadavere per far supporre che la responsabile fosse la figlia, inoltre alcune testimonianze collocano Money e Chabloz nei pressi della casa delle vittime la notte del delitto e altre parlano di un rapporto molto conflittuale fra le due donne e Chabloz. Il movente sarebbe stato la volontà di liberarsi dal primo matrimonio e rendere così possibile il matrimonio con Giulia Chabloz ed ereditare i beni di Gaspari e Gorret, donne parsimoniose che, con vari lavori artigianali, avevano messo da parte un po’ di averi. Money, tornato a Nus dopo l’esito favorevole della prima istruttoria, viene arrestato il 3 giugno 1908 e si suicida in carcere il 22 giugno, mentre Chabloz viene processato per complicità e istigazione nel duplice omicidio e per furto. -
Virdis Francesco, il mostro della Dora «Fu una tragedia consumata nella miseria e nell'odio, l'ultimo gesto di una vita sbagliata e violenta» recita l’incipit di un articolo della «Stampa» del 2 ottobre 1976, riassumendo in una definizione perfetta il delitto di Borgo Dora. La sera dell’12 novembre 1957 Francesco Virdis, appartenente ad una famiglia di immigrati sardi che vivono nella periferia torinese, manomette il bocchettone del gas nella casa dove vive con la madre e i due fratelli. Mentre i familiari stanno dormendo, esce dall’appartamento e li lascia morire nel sonno. La quarta sorella si salva perché, poliomielitica, vive in Sardegna con dei parenti. Alle origini del gesto ci sono appunto l’odio e la miseria: rapporti familiari difficili, litigi, difficoltà economiche, mal di vivere. La madre di Virdis, Maria Mereu, al momento del delitto è una donna di 46 anni, che ha sposato quando ne aveva 23 Battista Virdis, lo zio materno che era rientrato dagli Stati Uniti dove aveva fatto fortuna, ma che aveva poi disperso il patrimonio ed era morto in carcere, condannato per diversi reati di abigeato, furto e usura. La donna si era trasferita a Torino mantenendosi come poteva e i suoi quattro figli erano cresciuti tra collegi e riformatori, dandosi presto alla piccola criminalità. Il più grande, Giovanni, dopo quattro anni di carcere per rapina, stava tentando di intraprendere una vita onesta, mentre Francesco che, rinchiuso nel carcere minorile Ferranti Aporti aveva imparato il mestiere di meccanico, viveva tra lavori occasionali, piccoli furti e serate passate al bar, in una solitudine che lo porta a tentare il suicidio. L’unica ad avere un lavoro stabile è Giuseppina, ventiduenne al momento della morte, che fa la “pettinatrice” in un negozio di via Cibrario. Le tensioni nella piccola casa di via Piossasco 24, nel quartiere di Borgo Dora, con questi quattro parenti ognuno con le proprie preoccupazioni e insoddisfazioni sono continue e Francesco Virdis, dopo aver ripetutamente minacciato di morte i familiari e averli spaventati aprendo il gas già una settimana prima del delitto, decide di porre fine ai conflitti con questo gesto estremo di rabbia, odio e disperazione. Le sentenze nei tre gradi di giudizio lo condanneranno all’ergastolo, ma durante gli anni di detenzione, Virdis sembrerà maturare una coscienza nuova, attraverso lo studio e il dialogo, in particolare con un giornalista, Franco Fedele, che conosce Virdis durante un'inchiesta sui penitenziari italiani per il settimanale «Tempo» e stabilisce con lui un intenso scambio epistolare. Nel carcere di Alessandria prenderà il diploma di geometra e poi studierà sociologia. -
La strage di Villarbasse È una vicenda tragica ed efferata, da dopoguerra. Pietro Lala, conosciuto con il falso nome di Francesco Saporito, Giovanni Puleo, Francesco La Barbera e Giovanni D’Ignoti, siciliani emigrati a Torino, decidono di compiere un furto nella più ricca cascina della campagna di Villarbasse, nel torinese, la Simonetto. La sera del 20 novembre 1945 si dirigono alla cascina, dove si trovavano il proprietario Massimo Gianoli e altre nove persone. Lala viene però riconosciuto e i quattro banditi uccidono i presenti, colpendoli alla testa e gettandoli ancora vivi in una cisterna, poi scappano con il bottino. Nel clima di regolamento di conti e di sospetti del ’45 inizialmente il crimine viene considerato un rapimento (i cadaveri, nascosti nella cisterna, non vengono trovati subito) e attribuito a una banda partigiana, capeggiata da un certo Carmelo Fiandacca con cui Gianoli aveva avuto uno scontro durante la guerra, Francesco Saporito è indicato come uno dei complici. Lo stesso Renato Morra, una delle vittime, per il solo fatto di essere stato partigiano viene sospettato di essere in combutta con i rapitori e i suoi due fratelli, Carlo e Pietro, vengono interrogati e reclusi alle Nuove per mesi. Anche il ritrovamento dei corpi nella cisterna, a distanza di otto giorni dal delitto, non incrina questa tesi, seguita con convinzione dal comandante della polizia alleata, il capitano Marshall, fino a quando non si scopre che Fiandacca, rintracciato in Sicilia e tradotto a Torino per l’interrogatorio, al momento del delitto era già tornato nell’isola. Il sottotenente dei carabinieri Armando Losco, ventisettenne originario di Avellino, che comanda la tenenza di Venaria e ha seguito le indagini fin dal primo momento, decide allora di ripartire dall’unico dato certo: uno degli assassini doveva essere siciliano perché nelle vicinanze della cascina era stato ritrovato un lembo di una giacca con la spalla e una manica macchiate di sangue e un’etichetta con il nome di una sartoria e la scritta “via Caltanissetta, Palermo”. Intraprende allora una lunga campagna di controllo di tutti i siciliani della zona – a quei tempi spesso emigrati che attraversano avanti e indietro l’Italia trafficando con la borsa nera – e alla fine arriva a una soffitta in via Rombò 8, a Rivoli, che era stata punto d’incontro dei quattro criminali. Siamo ormai nel febbraio 1946. Viene trovato un vecchio cappotto con tracce di sangue e i resti di una tessera annonaria bruciata da D’Ignoti insieme alle tante carte rubate a Gianoli, che il 3 marzo 1946 porta finalmente gli investigatori al possessore: Giovanni D’Ignoti, residente a Torino in via San Massimo 41, dipendente alla conceria pellami della Fiat di Collegno, l’unico dei quattro a non essere tornato in Sicilia. Durante un abile interrogatorio il sottotenente Losco lo induce a confessare, ricostruendo così i nomi dei complici. Puleo e La Barbera saranno arrestati in Sicilia il 24 marzo e portati a Torino, Lala, che era diventato capo di una banda alleata a quella di Salvatore Giuliano tra le montagne di Corleone, Partinico e Montelepre, viene ritrovato morto, nella campagna di Mezzojuso, ucciso a colpi di proiettile, l’11 aprile, il giorno in cui i suoi complici sono reclusi alla Nuove di Torino. Il processo della Corte d’assise di Torino si svolgerà in pochi giorni, tra il 3 e il 5 luglio, e si concluderà con la condanna a morte per omicidio. Sarà l’ultima condanna a morte eseguita in Italia, quando già una sottocommissione dell’Assemblea costituente sta discutendo dell'abolizione di questa pena: vista l’efferatezza del crimine il Presidente della repubblica, Enrico De Nicola, risponde negativamente alla domanda di grazia e il 4 marzo 1947 Puleo, D’Ignoti e La Barbera vengono giustiziati alle Basse di Stura, alla periferia di Torino. Per diverso tempo nel torinese rimarrà in voga l'espressione “è più malvagio lui di quelli di Villarbasse”. -
Giannelli Jole Jole Giannelli, detta Patrizia, ventiseienne originaria di San Marino, separata dal marito, prima operaia e poi insegnante maglierista, amante “della vita brillante e frequentatrice dei locali alla moda” («Il Secolo XIX», 17 settembre 1954) uccide Achille Bruzzone, commesso di bordo di 25 anni, con cui intratteneva da un anno una relazione che Bruzzone era intenzionato a interrompere. Il 15 settembre 1954 Giannelli lo aspetta alle 7 di mattina nell’atrio della casa dove abita in via Teodosia 5, a Genova, prima chiede a Bruzzone la restituzione di alcune fotografie scattate durante la loro relazione e poi spara due colpi con una piccola rivoltella, una Beretta calibro 6,35. Un colpo va a vuoto, l’altro raggiunge al cuore l’uomo che esce dall’edificio chiamando aiuto e cercando soccorso nel bar dell’amico Silvio Castiglioni in via Caffa. Portato all’ospedale morirà poco dopo. La donna invece viene fermata dal negoziante Oronzo Fizzarotti, che aveva assistito alla scena e che, con la scusa di portarla in motorino a casa, la conduce invece in questura. Giannelli decide allora di costituirsi e confessa il delitto al funzionario di servizio dott. Costa e poi al dott. Calenda e al maresciallo Barbone che conducono l’interrogatorio. L’indagine è portata avanti oltre che da Calenda, vicecapo della squadra mobile, e Borbone, dalla guardia scelta Viti. «Il Secolo XIX», nel tentativo di restituire il movente del delitto, spiega: «Jole Gianelli ha incontrato molti uomini sulla sua strada: è stata circuita e lusingata, amata e, infine, disprezzata. Quando Achille Bruzzone apprese per bocca di amici che la “sua” donna aveva avuto un burrascoso passato, decise di troncare la relazione». «Ho premuto il grilletto della rivoltella – affermerà Gianelli – perché ero avvilita e nello stesso tempo nauseata della mia vita. È stato un attimo di smarrimento ma non chiedo perdono» («Il Secolo XIX», 18 settembre 1954). -
Basile Tobia, la donna murata di Fuorigrotta Il 21 marzo 1902 in seguito ad una segnalazione anonima vengono rinvenuti nell’appartamento di Giacomo Stefanelli in via Campanella Vecchia 1 a Fuorigrotta i resti semi mummificati del corpo di una donna, «di un’età compresa tra i 35 e i 45 anni, di statura media, piuttosto robusta, coi capelli castano chiari» (Fascicolo giudiziario 1902), morta di morte violenta. La lettera indica anche i responsabili: Tobia Basile, fornaio di circa sessant'anni al momento disoccupato, sua sorella Carmela, casalinga di circa 65 anni e i due figli di quest’ultima, Francesca e Domenico Grimaldi (rivenditrice di carne da Bracigliano di circa trent'anni la prima e fornaio sempre da Bracigliano di una cinquantina d'anni il secondo) e poi la moglie di Basile, Angela Esposito, casalinga di 48 anni, Emilio Sibilia, fornaio napoletano diciottenne, e Giovanni Marinelli. Al momento dell’arresto, Tobia Basile confessa il delitto, sostenendo che la donna sarebbe stata una “pacchiana” di nome Agostina, detta la calabrese, che Carmela, i suoi figli e Sibilia avrebbero invitato a pranzo a casa di Basile il 25 settembre 1898 e avrebbero poi ucciso, con due colpi di bastone alla testa, dopo averla intontita con il vino, con lo scopo di rubare i denari e preziosi in possesso della donna: alcune vesti di valore, vari fazzoletti di seta, sette anelli d'oro, due catene con due orologi d'argento. Il mattino successivo al delitto avrebbero cercato Marinelli per murare il cadavere. Gli indiziati negano però ogni responsabilità e secondo gli inquirenti la storia sarebbe stata effettivamente un’altra: Tobia Basile, che aveva fra l'altro alle spalle venticinque anni di reclusione per un omicidio, avrebbe accusato i suoi presunti complici, avendoli in odio perché non l’avrebbero aiutato economicamente e la vittima sarebbe stata in realtà non la "pacchiana" Agostina ma la moglie Angela Esposito, in effetti scomparsa in quegli anni. La sentenza del tribunale conferma questo quadro accusatorio e condanna Basile a ventinove anni di reclusione per i reati di omicidio e calunnia. -
Giuseppe Lo Faro La mattina dell’8 agosto 1929 Giuseppe Lo Faro, catanese di 46 anni, uccide con 8 colpi di coltello la sua amante, la ventiseienne Maria Flores, nella stanza al 2° piano in cui la donna abitava, in vicolo Portacarrese 18 nel quartiere di Montecalvario a Napoli. I due si erano conosciuti alcuni anni prima a Catania e avevano convissuto per alcuni mesi. Poi Lo Faro era stato condannato ad un anno di reclusione per contrabbando di saccarina e Flores era stata rimpatriata nella sua città, Napoli, con foglio di via obbligatorio per “ragioni di moralità”. All’uscita dal carcere, l’8 luglio, Lo Faro ipotizza in uno scambio epistolare con Maria Flores di trasferirsi a Napoli, e, precorrendo i tempi, si presenta dalla donna il 5 agosto, trovandola inaspettatamente distaccata. Flores, infatti, identificata come artista teatrale, che viveva di stenti ed era dedita all’esercizio clandestino della prostituzione, intratteneva una relazione anche con un altro uomo, un tal Eugenio, anch’egli catanese, che proprio in quei giorni aveva sostenuto con successo un esame come chauffeur a Torino e doveva passare a Napoli a trovarla. Alla confessione della donna di non poter troncare immediatamente quest’altra relazione, Lo Faro reagisce colpendola con un coltello a serramanico, poi si affaccia alla finestra e chiede aiuto, confessando il delitto. La donna, portata all’ospedale Pellegrini, morirà poco dopo in seguito alle 8 ferite da punta e da taglio, al collo, al torace, alla regione epigastrica, a quella soprapubica e al lato interno del cranio sinistro. La tesi della difesa è che Lo Faro fosse morfinomane e quindi infermo di mente e che il coltello usato nel delitto fosse stato estratto dalla propria borsetta da Maria Flores, che avrebbe scherzosamente minacciato l’amante per gelosia. La perizia psichiatrica condotta dal professor Eugenio La Pegna e dal dottor Gerardo Ansalone, riconosce però Lo Faro sano di mente, affermando che: «il grave reato è rapportabile unicamente alla sua costituzione degenerativa genuinamente criminale». La dipendenza dalla morfina sarebbe del resto anteriore al 1927, periodo della detenzione in carcere durante il quale Lo Faro si sarebbe disintossicato. La Corte respinge entrambe le tesi e dichiara Lo Faro colpevole di omicidio condannandolo a 21 anni di reclusione e a 3 di libertà vigilata dopo la scarcerazione, ai sensi dell’articolo 364 del Codice penale. Visti i precedenti penali dell’imputato – condannato per correità in adulterio, per appropriazione indebita, per falsità in cambiale, per fabbricazione clandestina di sapone, per contrabbando di saccarina e altri reati – non vengono concesse le attenuanti, così come viene negata l’attenuante passionale per provocazione, del resto abrogata dal codice penale Zanardelli nel 1898. -
Vercesi Rosa Rosa Vercesi e Vittoria Nicolotti sono due donne emancipate nella Torino degli anni Venti. Vittoria ha un negozio di vestiti per bambini in via Santa Teresa 12, La Falena, e viaggia a Parigi per aggiornarsi sulle ultime novità della moda. Vercesi, con un passato di povertà e violenza alle spalle, dopo vari lavori come operaia ha intrapreso, con abilità e una spregiudicatezza che non esita a sfociare nell’illegalità, un’attività di intermediazioni finanziarie, lavorando con diversi agenti di borsa e poi mettendosi in proprio con un suo “ufficio” al Gran Caffè Ligure. Tra le due si è stabilito da alcuni anni un turbolento rapporto che è nello stesso tempo economico e sentimentale. Nicolotti si rivolge a Vercesi per degli investimenti economici su cui però ha spesso da recriminare, ma il loro legame è anche amoroso. La sera del 19 agosto 1930, dopo essere andata con l’amica al cinema, Nicolotti la invita a fermarsi a dormire nel suo appartamento in via Oporto 51 (diventato poi nel 1945 corso Matteotti), e durante un rapporto sessuale violento, forse con l’assunzione di cocaina, Vercesi finisce con l’uccidere l’amante. Il cadavere viene ritrovato la mattina seguente dalla portinaia e una vicina di casa coperto da ecchimosi e graffi e dall’evidente segno di un morso. Le indagini del commissario Ciminelli della squadra politica della questura conducono subito a Vercesi, il cui corpo anch’esso ferito da graffi è prova evidente della responsabilità dell’omicidio, che però la donna si ostina a negare. Di fronte al tabù di un rapporto omossessuale di cui nessuno vuole parlare, il delitto viene spiegato con un movente economico: l’appropriazione indebita di titoli borsistici di Vittoria da parte di Rosa e il furto di alcuni suoi gioielli che vengono ritrovati alla fine di novembre nell’abitazione di Vercesi, nascosti in una plafoniera. Vercesi, del resto, era già stata indagata nel 1927 per un furto di cambiali, avvenuto presso l’ufficio del borsista Mario Gilli. L'accusa è dunque quella di omicidio premeditato a sangue freddo, a scopo di furto e la pena stabilita dalla Corte, di soli giudici togati, è l’ergastolo. Rigettata la richiesta di revisione del processo in cassazione, Rosa Vercesi entra in carcere a trent’anni e ne esce quasi sessantenne, alla quarta richiesta di grazia che viene concessa dal Presidente Gronchi nel 1959. Confesserà solo molti anni dopo le ragioni del suo delitto. Malgrado la censura fascista il processo avrà un grande risalto mediatico, con numerosi articoli nella cronaca cittadina o giudiziaria di giornalisti come Francesco Argenta, Guido Gaja, Ugo Pavia e Marco Ramperti, e l’imputata diventerà per qualche tempo un personaggio, dettando a Torino la moda dei guanti “alla Vercesi” e attirando l’attenzione dell’attrice Paola Borboni, che seguirà il processo. -
Dossier Agostino Icardi, il dramma di Salita del Prione Nel pomeriggio del 9 aprile 1958 in un piccolo appartamento in via del Prione n. 12A a Genova il trentaseienne Agostino Icardi, morfinomane abituale, protagonista tre anni prima, insieme ad altre quattordici persone, di una truffa ai danni dell’Inam, colpisce ripetutamente con un coltello da cucina Angelina Murgia che, con la sua famiglia, divideva l’abitazione con Icardi. L’appartamento era abitato tra tre famiglie, quella di Icardi e della moglie Anna Lagatta, quella di Murgia e del marito Rosario Scorsone e quella dei coniugi Andrea e Cristina Sabato, tutti con figli: undici persone in tre stanze. La coabitazione era difficile soprattutto a causa del carattere di Icardi e le liti frequenti. L’ennesimo confronto tra Icardi e Murgia sfocia nel gesto violento di Icardi, che, dopo il ferimento, si costituisce ai carabinieri del nucleo di palazzo Ducale, composto dal capitano Francesco Friscia e dai brigadieri De Marinis e Cantalupo. Il Sostituto procuratore incaricato dell’istruttoria è Vito Napoletano. -
Genova Celeste, il delitto delle due valigie La mattina del 18 dicembre 1945 due manovali, Sperandio Pizzorni e Filippo Podestà, che gestiscono il deposito bagagli di Chiavari, insospettiti dall’odore proveniente da due valigie da loro custodite decidono di aprirle. Pensano di trovarvi dei salumi andati a male, dato che le valigie sono lì in giacenza da diversi giorni. «Ma al loro stupefatto orrore – racconta il cronista del «Secolo XIX» – s’era presentato quanto di più insospettabile ci poteva essere: nella valigia erano chiuse due gambe femminili calzate in seta e con i piedi racchiusi in scarpe ortopediche e una testa muliebre, tra brandelli di indumenti». I due avvertono le forze dell’ordine e riferiscono che le valigie erano state lasciate in deposito il 24 novembre, verso le 17 da una «donna alta, robusta e bruna di circa quarant’anni, indossante un soprabito verde scuro», che avrebbe chiesto l’orario di partenza del treno per La Spezia e, dicendosi molto stanca, avrebbe lasciato le valigie al deposito per tornata a riprenderle più tardi. Le valigie vengono portate alla camera mortuaria del cimitero di Chiavari per l’autopsia. La donna è stata strangolata: la cordicella usata per il delitto è ancora legata intorno al collo. Le indagini, condotte dalla squadra mobile di Genova seguendo la pista delle segnalazioni di persone scomparse, porteranno a scoprire che la morta è Italia Vannini, detta Giannina, uccisa nella sua casa di via Rivale 3/5 a Genova dall’inquilina Celeste Genova, soprannominata Lina. In quell’appartamento le due donne avrebbero esercitato la prostituzione e i loro rapporti, inizialmente buoni, si sarebbero poi incrinati. La mattina del 22 novembre Vannini avrebbe chiesto a Genova, che non pagava l’affitto, di lasciare la sua stanza e questa avrebbe reagito uccidendola. Interpellata sulla scomparsa della donna, Celeste Genova inizialmente racconta che Vannini si sarebbe recata a Ventimiglia, con 44.000 lire, il 29 novembre per comprare della saccarina e della cocaina, ma quando i sospetti si concentrano su di lei finisce con l’ammettere l’omicidio inventandosi un complice immaginario, un tale Silvio il Siciliano, che sarebbe stato amante conteso delle due donne e che l’avrebbe aiutata a tagliare il corpo. Poi ritratta e si assume tutte le responsabilità del delitto, continuando a negare però la premeditazione e asserendo di aver strangolato Vannini non con un laccio, come emerso dall’autopsia, ma con le proprie mani in un impeto d’ira. La misteriosa “donna in verde” aveva portato poi le due valigie a Chiavari servendosi di un’autolettiga della Croce Rossa che il suo amante, Mariotti, un partigiano, aveva in uso, così da evitare i frequenti controlli sui treni e sulle auto private dell’immediato dopoguerra. L’intenzione era quella di recuperarle in un secondo momento, portarle a La Spezia e gettarle nel fiume Magra. Dopo l’omicidio Genova si impossessa di 10.000 lire in danaro, di tre tagli per camicia da uomo, di un taglio di vestito da uomo, di un orologio da polso per donna, di due anelli d’oro da donna, di cui uno con cinque brillantini, di un impermeabile e di altri indumenti, nonché di biancheria personale e da casa sottraendo il tutto dall’abitazione di Italia Vannini. Il suo proposito sarebbe stato quello di gestire da sola l’equivoca pensione di via Rivale e di trarne guadagno. -
Leonarda Cianciulli, "la saponificatrice di Correggio" Leonarda Cianciulli, maritata Pansardi, tra il 1939 e il 1940 uccide tre donne a Correggio (Reggio Emilia), sezionandone e distruggendone i cadaveri. Le vittime sono Ermelinda Faustina Setti (53 anni), uccisa il 18 dicembre 1939; Francesca Soavi (55 anni), uccisa il 5 settembre 1940; Virginia Cacioppo (59 anni), uccisa il 30 novembre 1940). Le indagini sono affidate al commissario Serrao che indirizza i sospetti verso la Cianciulli la quale aveva scelto come vittime tre donne sole e con ingenti risparmi. Dopo averle irretite, la Cianciulli aveva fatto produrre alle vittime prove per giustificare la loro sparizione. La Cianciulli confessa un po' alla volta i crimini (inizia il 3 marzo 1941): ha ucciso servendosi di un'ascia, sezionando poi corpi che ha distrutto bollendoli in un pentolone con soda caustica per farne del sapone. Con il sangue, raccolto a parte, ha cucinato dei biscotti che avrebbe dato da mangiare ai figli per proteggerli dalla morte. Il processo si apre alla Corte d'assise di Reggio Emilia il 16 giugno 1946: l'accusa sostiene il movente economico degli omicidi, mentre la Cianciulli li presenta come un sacrificio di sangue fatto per salvare i propri figli dalla morte. Il professor Filippo Saporito, direttore del manicomio criminale di Aversa, redige una perizia che convince la corte a dichiarare la seminfermità mentale per l'imputata. La sentenza del 20 luglio 1946 dichiara la Cianciulli colpevole di triplice omicidio, distruzione di cadavere e furto aggravato; viene condannata a trent'anni di reclusione, tre da scontare in un ospedale psichiatrico, e al pagamento di 15.000 lire. Il figlio Giuseppe Pansardi dopo aver scontato cinque anni di reclusione con la sentenza viene rilasciato per insufficienza di prove. La Cassazione conferma la condanna nel maggio 1948. La Cianciulli muore il 15 ottobre 1970 a Pozzuoli, dopo ventiquattro anni di reclusione. Gli strumenti usati dalla Cianciulli per gli omicidi sono custoditi dal 1949 nel Museo criminologico di Roma.